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Il Metodo Simoncini

Ultimo Aggiornamento: 05/03/2009 23:05
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Tullio Simoncini, è un medico chirurgo romano, specializzato in oncologia e in diabetologia e malattie del ricambio, è anche dottore in filosofia. La sua nota distintiva caratteriale è l’insofferenza per la falsità e la menzogna. A livello scientifico ciò si traduce in una forte opposizione contro ogni tipo di conformismo intellettuale.
Se si considera il totale fallimento dell’oncologia ufficiale, si capisce la sua posizione estremamente critica nei confronti di un sistema planetario scientificamente morto e produttore di morti. È uno sportivo che cura costantemente il suo stato fisico cercando di obbedire alle elementari regole della natura: sana alimentazione, attività fisica e responsabilità morale. Pratica costantemente jogging e, quando è possibile, sci e calcio.
La sua naturale tendenza alla sintesi deriva anche da una sensibilità che tende a percepire l’armonia del “tutto”, distintamente dal valore delle parti. Questo suo istinto è stato rafforzato dalla sua propensione musicale, coltivata e rafforzata dal fatto che ha suonato vari strumenti come il pianoforte, la chitarra classica e quella moderna. Quest’ultima lo ha portato a formare, quando era studente al liceo classico e poi all’università, varie band musicali che si esibivano nel centro Italia.
Tutta la sua personalità, inoltre, è pervasa da una forte umanità, la vera molla che lo ha portato a chiedersi, di fronte allo straziante dolore dei malati, quanto misere e insignificanti fossero le nozioni fondamentali della medicina. Negli anni di professione medica ha elaborato una sua teoria sul "male del secolo".
Ha partecipato a diverse conferenze e dibattiti ed è stato, tra l’altro, relatore al convegno "Firenze-Medicina 2000" (18-19 settembre 1999) e al "Congresso Internazionale di Oncologia" di Treviso (15-16-17 ottobre 1999). Invitato a varie trasmissioni televisive di tv private, ha dibattuto le problematiche della medicina ufficiale e di quella alternativa e ha esposto le sue teorie sul cancro. Ha partecipato a importanti conferenze e in quella del 4 marzo 2000 svoltasi a Perugia, era presente come relatore anche il Prof. Luigi Di Bella. E' presidente del comitato scientifico di una federazione di associazioni per la libertà di cura. Dedicatosi da tempo alla studio e cura dei tumori, presenta una teoria molto interessante sull’eziopatogenesi della malattia cancerosa. Sostiene infatti che il cancro non dipende, come afferma la medicina ufficiale, da cause genetiche, ecc., ma è il risultato di un'affezione fungina <>. Secondo la sua teoria, suffragata dai tanti casi risolti, responsabile del cancro è appunto la Candida.


 
[Modificato da zen_79 19/02/2009 22:48]
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ECCO: LA CANDIDA E’ IL CANCRO!

Intervista al dottor Tullio Simoncini

Raccolta da Giuseppe Cosco

Il problema del cancro, ancor oggi, è e rimane complesso. Diversi ricercatori, non allineati alle spiegazioni e relative terapie della medicina ufficiale, da anni studiano il problema.
In Italia, tra gli altri, un medico romano, il dottor Tullio Simoncini, laureato in medicina e chirurgia, specializzato in diabetelogia e malattie del ricambio e con una laurea anche in filosofia, ha elaborato una sua teoria sul "male del secolo". Il dottore che ha partecipato a diverse conferenze e dibattiti è stato, tra l’altro, relatore al convegno "Firenze-Medicina 2000" (18-19 settembre 1999) e al "Congresso Internazionale di Oncologia" di Treviso (15-16-17 ottobre 1999). Invitato a varie trasmissioni televisive di tv private, ha dibattuto le problematiche della medicina ufficiale e di quella alternativa e ha esposto le sue teorie sul cancro. Ha partecipato a importanti conferenze e in quella del 4 marzo 2000 svoltasi a Perugia, era presente come relatore anche il Prof. Luigi Di Bella. Simoncini è presidente di un comitato composto da 30 medici che attua e ricerca su tutto il territorio terapie alternative.

Il medico, dedicatosi da tempo alla studio e cura dei tumori, presenta una teoria molto interessante sull’eziopatogenesi della malattia cancerosa. Egli sostiene che il cancro non dipende, come afferma la medicina ufficiale, da cause genetiche, ecc., ma è il risultato di un'affezione fungina <>. Secondo la teoria di Tullio Simoncini, responsabile del cancro è appunto la Candida.

L’INTERVISTA

COSCO: Dottor Simoncini oggigiorno l’oncologia ha fatto molti progressi, le statististiche…

SIMONCINI: Altro che statistiche che parlano di ridotta mortalità, di adeguati programmi di prevenzione e di accuratezza diagnostica! Quando una persona si ammala di un tumore vero, e non di qualsiasi neoformazione innocua che può solo corrompere i dati epidemiologici, la medicina ufficiale è tuttora drammaticamente impotente. Difatti, l’indice di mortalità di tutte le neoplasie più serie, di quelle neoplasie cioè la cui evoluzione non è alterabile da errori di interpretazione, da mistificazioni o dal concorso di variabili non considerate (vale a dire quando si tratta di tumori del polmone, cervello, stomaco, pancreas, esofago ecc.), è rimasto più o meno lo stesso da 50 anni a questa parte. E’ bene sottolineare poi, che la questione non riguarda solo il campo dei tumori ma tutte le malattie, che vengono oggi trattate in maniera indegna e superficiale, lasciando nella sofferenza per lustri e lustri milioni di persone. Pensiamo ad esempio al popolo dei cardiopatici, dei diabetici, degli stitici, dei depressi, degli insonni, degli epilettici, dei neurosclerotici ecc.: sono il segno del fallimento! Tutta la società viene risucchiata in una spirale di paura e di morte di dimensioni planetarie, malgrado si investano fiumi di denaro. Questo perché le idee motrici della ricerca sono sbagliate alla radice, dove la forzatura della visione meccanicistica dell’uomo può ormai portare benefici solo in settori specifici collaterali e solo in via occasionale, malgrado la gran mole di studi, di studiosi e di denaro che entrano ogni giorno in campo in tutto il mondo. Il metodo sperimentale però parla chiaro: la sperimentazione e i dati della sperimentazione, dipendono dall’ipotesi di fondo; se essa è sbagliata, tutto è sbagliato e improduttivo.

COSCO: Allora secondo Lei dov’è l’errore della medicina ufficiale?

SIMONCINI: Nell’idea di fondo, in quell’ipotesi da cui dipende tutta la ricerca, cioè che il cancro sia dovuto ad una causa genetica. Essa è falsa, primo perché in cinquant’anni ha prodotto solo danni e illusioni, secondo perché sotto il profilo logico è ridicola, perché assolutamente opinabile, quindi inaccettabile. A titolo informativo è utile svelare allora, una volta per tutte, il quadro delle presunte influenze genetiche nello sviluppo dei processi tumorali, così come sono descritte dai biologi molecolari (di quegli studiosi cioè ai quali compete la ricerca degli infinitesimi meccanismi cellulari vitali, ma che in realtà non hanno mai visto un paziente), e sul quale si basano tutti i sistemi medici attuali, e quindi ahimè tutte le terapie attuali. L’ipotesi portante di una causalità genetica in senso neoplastico si riduce essenzialmente al fatto che le strutture e i meccanismi preposti alla normale attività riproduttiva cellulare, per intendersi quella di tutti i giorni, per cause imprecisate assumono in un determinato momento un atteggiamento autonomo e svincolato rispetto alla globale economia tissutale. I geni allora che normalmente svolgono un ruolo positivo nella riproduzione cellulare, vengono chiamati proto-oncogeni in un ottica deviata; quelli che la inibiscono, sono chiamati geni soppressori o oncogeni recessivi. Ad esempio il gene da cui dipende normalmente l’ormone tiroideo, secreto tutti i giorni, ad un certo momento non si sa perché (cioè è qui che sta il mistero che regge tutta la ricerca) diventa anomalo, con ripercussione sui cicli di crescita cellulari. Fattori cellulari sia endogeni (in realtà mai dimostrati), sia esogeni, cioè tutti quegli elementi cancerogeni usualmente invocati, vengono ritenuti responsabili della degenerazione neoplastica dei tessuti.

COSCO: Secondo quanto afferma vale a dire che…

SIMONCINI: Vale a dire che quello che non si sa, si ipotizza possa dipendere da elementi ritenuti cancerogeni, cioè che determinino un’alterazione genetica. Secondo le dottrine ufficiali insomma, si ipotizza che le deviazioni siano dovute all’azione di sostanze tossiche (10000 e più), a fattori neuro-psico-endocrini, immunologici oppure ad atavici processi embrionali che risveglierebbero l’antagonismo cellulare. Praticamente a tutto. Nello J. H. Stein (Milano 1995) come in qualsiasi altro testo, viene riportato quanto segue. I segnali mitogenici, dal microambiente o da aree di influenza più distanti, vengono comunicati alle cellule attraverso numerose strutture recettoriali associate alla membrana plasmatica. Tra queste strutture, le più esaurientemente studiate sono i recettori con un dominio esterno per il legante, un dominio transmembrana e un dominio citoplasmatico avente attività tirosinchinasi. Oltre a questi si pensa che almeno sette distinte classi di molecole partecipino alla trasmissione del segnale mutageno: Recettori accoppiati a proteine G. Canali ionici. Recettori con attività intrinseca guanilato ciclasi. Recettori per molte linfochine, citochine e fattori di crescita (interleuchina, eritropoietina, ecc.). Recettori per l’attività fosfotirosina fosforilasi. Recettori nucleari appartenenti alla famiglia supergenica del recettore per gli ormoni steroidei, estrogeni, tiroidei. Infine prove sempre più numerose suggeriscono che le molecole di adesione espresse sulle superfici delle cellule comunicano con il microambiente in modi che producono conseguenze molto importanti sulla crescita e sulla differenziazione cellulare.

COSCO: Ad un’analisi appena superficiale di questo presunto quadro oncogeno da lei esposto, si evince che tutta questa irrefrenabile iperattività genetica sia partorita da elementi che stanno al confine tra l’oscuro, il mostruoso e l’incerto?

SIMONCINI: Certo. Il tutto fa presagire chissà quali meccanismi abissali decifrabili con meccanismi concettuali altrettanto abissali. Tutto ciò non può far altro che svelare l’estrema idiozia che sta alla base di un simile modo di impostare le cose. Il fatto ancor più grave poi, è che nessuno nel panorama sanitario attuale mette in dubbio siffatte imbecillità, ma tutti gli addetti ai lavori non fanno altro che ripetere la stantia litania dell’anomalia riproduttiva cellulare su base genetica. Ma è possibile accettare che degli uomini, dei ricercatori su cui si fondano le speranze di milioni di persone, basino il proprio operare su imprecisati fattori causali? Questo è il punto: in pratica e al di là di eufemismi fallimentari, i geni devierebbero non si sa perché. Tutti poi dovrebbero accettare direttive e protocolli fondati sul nulla. Qui siamo alla degenerazione mentale. In questo stato di cose allora, esibendo la teoretica medica attuale una pochezza e una superficialità queste si abissali, conviene rifiutare in blocco tutte le autorevoli stupidaggini e cercare nuovi orizzonti e nuovi strumenti concettuali, in grado di far emergere la reale ed unica eziologia neoplastica. Dopo tanti anni di fallimenti e di sofferenze, è ora di svecchiare menti e mentecatti (in senso etimologico), con linfa nuova e produttiva: i misteriosi e complicati fattori genetici, la mostruosa capacità riproduttiva di un’entità patologica capace di scompaginare qualsiasi tessuto, l’implicita ancestrale tendenza dell’organismo umano a deviare in senso autodistruttivo, o altre simili argomentazioni, condite peraltro con una quantità di "se" e di "forse" di valore esponenziale, hanno più il sapore della farneticazione piuttosto che del sano discorso scientifico. Accantonata completamente perciò la cornice concettuale dell’odierna oncologia, con tutte le varianti interpretative d’ordine genetico, immunologico o tossicologico, rimane come unica via logicamente esperibile, quella delle malattie infettive, da guardare eventualmente, e da riconsiderare, con occhi diversi da come è stata considerata fino ad oggi. Confortano peraltro una simile conclusione due considerazioni, una di ordine storico e una di ordine epidemiologico: la prima risulta dal fatto che nell’approccio terapeutico al malato il salto di qualità, la possibilità cioè di curarlo concretamente, è stato determinato quasi esclusivamente dallo sviluppo della microbiologia; la seconda discende dall’analisi del prolungamento della vita media verificatosi negli ultimi decenni il quale, essendo associato a un inevitabile cambiamento nella stenicità e reattività degli individui, si può ipotizzare come un fattore determinante nello sviluppo di patologie infettive atipiche.

COSCO: Come è approdato alla Candida quale fattore cusale del Cancro?

SIMONCINI: Sono molti anni che, in seguito a studi, esperienze e risultati terapeutici altamente positivi, io ho sviluppato una teoria eziologica infettiva nel cancro, la cui unica causa a mio avviso è un fungo, la Candida attualmente troppo sottovalutata nelle sue potenzialità patogene. E in effetti, riflettendo un momento sulle sue caratteristiche clinico-semeiologiche, non poche analogie emergono con la malattia neoplastica.

COSCO: Quali tra le più evidenti?

SIMONCINI: Attecchimento ubiquitario, cioè non viene risparmiato praticamente nessun organo o tessuto. Costante assenza di iperpiressia. Sporadico e indiretto coinvolgimento dei tessuti differenziati. Invasività di tipo quasi esclusivamente focale. Debilitazione progressiva. Refrattarietà di fronte a qualsiasi trattamento. Proliferazione favorita da una molteplicità di concause indifferenti. Configurazione sintomatologica di base con struttura tendente alla cronicizzazione. E ancora: la velocità di crescita delle masse tumorali è uguale a quella fungina. Il metabolismo delle cellule fungine (glicolisi anaerobia) è uguale a quelle tumorali.

COSCO: Esiste documentazione scientifica che provi il nesso tra la Candida e il cancro?

SIMONCINI: Si. Il nesso inscindibile tra Candida e cancro peraltro, cioè l’identità delle due entità morbose, a ben guardare esiste ed è ben documentato in molti studi in tutto il mondo, solo che non viene correttamente compreso perché vige la distorsione dell’interpretazione genetica, che alla fine risulta a mio avviso, il più grosso ostacolo alla scoperta del cancro. Entrando più dettagliatamente nel merito di un’interpretazione comparativa più approfondita, esaminiamo i punti comuni, ma controversi , nelle due matrici oncologiche, quella genetica e quella infettiva, che dimostrano come in realtà la candida è il cancro. Definizione di Candida: "E’ un fungo saprofita occasionale, opportunista". Questa etichetta ufficiale, dalla forma accattivante e tranquillizzante, in realtà non dice e non spiega niente, anzi nasconde subdolamente la propria pericolosità. Gli aggettivi occasionale e opportunista invero, in pratica sviano la vigilanza della coscienza scientifica di un individuo, ingannato dal tono soporifero della frase e da una connaturata tendenza ad accettare quello che tutti dicono e condividono da sempre. Questo è l’errore, primo perché è stato abbondantemente dimostrato che non è detto che le idee più vecchie e maggiormente condivise siano le migliori, altrimenti non ci sarebbe mai stato progresso scientifico; secondo, perché il termine opportunista non è affatto un termine innocuo, anzi possiede una notevole carica di pericolosità, in quanto evidenzia un’adattabilità ed un polimorfismo di grado elevato, come viene spesso riportato, ad esempio da Wickes B.L. (Curr Top Med Mycol 1996 Dec;7(1):71-86), Suzuki T. (J Gen Microbiol 1989 Feb;135 ( Pt 2):425-34), Lott T.J. (Curr Genet 1993 May-Jun;23(5-6):463-7). Da uno studio di Odds F.C. peraltro si evidenzia come da ceppi simili o identici si possano formare infinite varianti della Candida anche in funzione di aree geografiche diverse, a testimonianza di come possano adattarsi ad ogni tipo di variabile non solo biologica. Basti pensare che il cosiddetto opportunismo della Candida in realtà nasconde una tale aggressività, da renderla capace di attaccare e colonizzare perfino i materiali sintetici utilizzati nelle protesi sostitutive di organi interni, come viene riferito da Ell S.R. (J Laryngol Otol 1996 Mar;110(3):240-2).

COSCO: Se ho ben capito lei dice: "La candida è opportunista"; allora, se vuol significare che è capace di passare, metabolicamente e strutturalmente, da uno stato innocuo ad uno patogeno, chi potrebbe confutare un ulteriore passaggio, sotto determinate condizioni concausali, da uno stato patogeno ad uno invasivo, cioè tumorale, mediante stati successivi di opportunismo differenziato?

SIMONCINI: E’ esattamente quello che io sostengo nella mia teoria. La candida è sempre presente nel cancro. Esiste un’infinità di lavori che attesta la costante presenza del micete nei tessuti dei malati di cancro, specialmente quelli terminali. Dati riguardanti la coesistenza della candida e del cancro, riscontrati da alcuni autori: Hopfer R.L. (J Clin Microbiol 1980 Sep;12(3):329-31): 79%. Kaben U. (Z Gesamte Inn Med 1977 Nov 15;32(22):618-22): 80% Hughes W.T. (Pediatr Infect Dis 1982 Jan-Feb;1(1):11-8): 91%. Kiehn T.E. (Am J Clin Pathol 1980 Apr,73(4):518-21): 97,1% . Tutto questo poi considerando la difficoltà di visualizzare le candide nei materiali organici da esaminare, come riporta anche Escuro R.S (Am J Med 1989 Dec;87(6):621-7), Karaev Z.O (Zh Mikrobiol Epidemiol Immunobiol 1992;(5-6):41-3) e Walsh T.J. (N Engl J Med 1991 Apr 11;324(15):1026-31).

COSCO: Praticamente si può tranquillamente affermare che essa è sempre presente nei tessuti dei malati di cancro?

SIMONCINI: Certo. Il fenomeno viene usualmente interpretato come una conseguenza dell’indebolimento e del defedamento dell’organismo dovuto alle lesioni neoplastiche. Io ritengo al contrario che l’aggressione della candida in senso cancerogenetico avviene, dopo le fasi patogene superficiali, cioè le candidosi epiteliali classiche, in diversi stadi: Radicamento nel tessuto connettivale profondo (nei diversi organi). Espansione con evocazione di una reazione organica che tenta l’incistamento delle colonie fungine, il cui esito è la formazione delle neoplasie. Accrescimento sia nel tessuto limitrofo che a distanza (metastasi). Progressivo defedamento dell’organismo con conseguente invasione organismica globale (E’ lo stadio che viene più comunemente visualizzato e che viene considerato "opportunistico"). Exitus.

COSCO: In sintesi come definirebbe la Candida?

SIMONCINI: In sintesi la candida non è un post hoc ma un ante hoc. Vari lavori confortano peraltro quanto affermato, quali: Pedersen A. (Tandlaegebladet 1989 Sep;93(13):509-13), Krogh P.(Carcinogenesis 1987 Oct;8(10):1543-8), Trotoux J. (Ann Otolaryngol Chir Cervicofac 1982;99(12):553-6) attestano il nesso causale tra la candida e la formazione del carcinoma epidermoidale della lingua. Zhang K.V (Chung Hua Kou Chiang Hsueh Tsa Chih 1994 Nov;29(6):339-41, 384) O’Grady J.F. (Carcinogenesis 1992 May;13(5):783-6) per neoplasie del cavo orale. Hicks J.N (Laryngoscope 1982 Jun;92(6 Pt 1):644-7) per la neoplasia della laringe. Field E.A. (J Med Vet Mycol 1989;27(5):277-94), Wang F.R. (Chung-hua Ping Li Hsueh Tsa Chih 1988Sep;17(3):170-2) e (Chung Hua Chung Liu Tsa Chih 1981 May;3(2):91-3) per il cancro del polmone. Joseph P. (Chest 1980 Aug;78(2):340-3) per il mixoma atriale. Rumi A. (Chir Ital 1986 Jun;38(3):299-304), Fobbe F. (ROFO Fortschr Geb Rontgenstr Nuklearmed 1986 Jan;144(1):106-7) Bathia V. (Indian J Gastroenterol 1989 Jul;8(3):171-2) marnejon T. (Am J Gastroenterol 1997 Feb;92(2):354-6) per il cancro dell’esofago. Taguchi T. (J Pediatr Gastroenterol Nutr 1991 Apr;12(3):394-9) per il carcinoma dell’intestino. Raina V. (Postgrad Med J 1989 Feb;65(760):83-5) per il morbo di Hodgkin. Piazzi M. (Minerva Stomatol 1991 Oct;40(10):675-9) per il M. di Kaposi. Mannell A. (S Afr J Surg 1990 Mar;28(1):26-7) per il tumore del pancreas.

COSCO: Tutti questi lavori cosa attesterebbero?

SIMONCINI: Attestano che la candida possiede una grande capacità carcinogenetica e come oggi non sia più proponibile un suo ruolo patogeno semplicemente consequenziale ad uno stato di defedamento post tumorale. Molti autori tra quelli descritti e anche altri come ad esempio Yemma J.J (Cytobios 1994;77(310):147-58), ammettono oggi quindi un ruolo eziologico diretto del micete nella genesi del cancro; l’errore che viene fatto però è quello di ritenerlo responsabile della produzione di sostanze che alterano la funzionalità nucleare, di inquadrarlo cioè in un ulteriore passo di degenerazione genica, la qual cosa alla fine impedisce di attribuire loro la matrice infettiva tout court, che aprirebbe finalmente la via alla definitiva scoperta del cancro.

COSCO: E del processo infettivo…

SIMONCINI: A dire il vero poi, non è che non sia stato mai ipotizzato un processo infettivo alla base delle lesioni neoplastiche; già nel 1911 Rous P. aveva ottenuto lo sviluppo di tumori maligni mediante trasmissione con filtrati cellulari delle masse neoplastiche (JAMA 1983 Sep 16;250(11):1445-9). Nel 1939 poi Reich W. aveva dimostrato che il cancro è trasmissibile e quindi d’origine infettiva ("La biopatia del cancro" Varese 1994). Ginsburg I. (Science 1987 Dec 11;238(4833):1573-5) dimostra come cellule tumorali di topo infettate da candida albicans e iniettate in ceppi singenici, esibiscano un’aggressività e una capacità di crescita notevolmente aumentate rispetto a cellule tumorali non infettate. Perri G.C (Toxicol Eur Res 1981 Nov; 3(6):305-10) riporta l’alta incidenza di neoplasie in topi alimentati con quote aggiuntive di proteine ricavate dalla candida. Non è affatto logico dunque, in base alle risultanze oggi esistenti, continuare a voler vedere la candida come un microrganismo ai limiti tra la patogenicità e l’innocuità, ma come l’unico, terribile generatore causale delle neoplasie.

COSCO: Com’è corretto dire: il tumore o i tumori?

SIMONCINI: Il tumore è concettualmente uno. Ne esistono però tanti tipi, vuole sapere il perché? Secondo le posizioni ufficiali, essendo l’alterazione genetica alla base dello sviluppo neoplastico, è possibile che esso possa manifestarsi in qualsiasi territorio, con tutte le differenziazioni tipologiche possibili. Secondo il mio punto di vista invece, è sempre la candida ad invadere i vari comparti anatomici, evocando reazioni differenti in funzione degli organi parassitati, che dipendono dalla quantità e qualità dei tessuti interessati. Un organo così, il cui connettivo profondo sia stato invaso, si difende tramite iperproduzioni cellulari che tentano di incistare le colonie fungine tendenti alla completa colonizzazione dell’organismo. Il rapporto esistente in un organo tra tessuti differenziati e il connettivo determina la capacità di reazione, e quindi il grado di malignità di una neoplasia. Meno cellule nobili ci sono, più maligno e invasivo è il tumore. Ad un estremo così ci sono i tessuti nobili inattaccabili, all’altro il semplice connettivo; il tessuto ghiandolare, che rappresenta la media via tra questi due elementi proprio perché dotato di strutturazione complessa, possedendo una certa capacità di incistamento nei confronti dei funghi, può opporsi alla loro invasione producendo il fenomeno del tumore benigno. In pratica, dunque, è sempre la stessa candida che attacca i diversi tessuti adattandosi di volta in volta al tipo di ambiente che trova.

COSCO: Si parla di diverse specie di candida…

SIMONCINI: Le specificazioni allora che vengono usualmente date riguardo alle varie candide (candida albicans, krusei, glabrata, tropicalis ecc.), sottovalutano il fatto che derivano tutte da un unico capostipite il quale, quando muta geneticamente per attaccare l’ospite, diventa ora questo ora quel ceppo. Hopfer R.L. ad esempio ha trovato in colture post-mortem di un malato leucemico, ben 4 specie diverse di candida. Aksoycan N. inoltre (Mikrobiyol Bul 1976 Oct;10(4):519-21) ha dimostrato che 7 diversi ceppi di candida in realtà hanno la stessa struttura antigenica. Odds F.C. (Zentralbl Bakteriol Mikrobiol Hyg [A] 1984 Jul;257(2):207-12) riferisce come lo stesso ceppo di Candida può colonizzare differenti comparti anatomici in tempi diversi. Hellstein J. (J Clin Microbiol 1993 Dec;31(12):3190-9) individua la comune origine clonale sia dei ceppi commensali che di quelli patogeni della candida albicans. La Candida presenta la stessa struttura genetica del cancro. Paradossalmente questo fatto così importante, che dimostra che la candida è il cancro, non viene nemmeno preso in considerazione dalla medicina ufficiale. Vari autori difatti, pur attestandone l’identità genetica, rimangono tuttavia solo su un piano sterilmente descrittivo. Vediamo alcuni di questi lavori: Werner G.A. (Eur Arch Otorhinolaryngol 1995;252(7):417-21) riferisce di aver trovato le stesse sequenze omologhe in campioni di DNA estratti dalla Candida glabrata, dalla Candida parapsilopsis e da cellule provenienti da materiale bioptico prelevato dal carcinoma squamo-cellulare delle vie aeree superiori. Yasumoto K. (Hum Antibodies Hybridomas 1993 Oct;4(4):186-9) e --Kawamoto S. (In Vitro Cell Dev Biol Anim 1995 Oct;31(9):724-9) dimostrano come lo specifico anticorpo monoclonale diretto verso il citocromo C della candida krusei reagisce anche nei confronti di una frazione citoplasmatica di cellule del tumore del polmone. Hashizume S. (Hum Antibodies Hybridomas 1991 Jul;2(3):142-7) e Hirose H. (Hum Antibodies Hybridomas 1991 Oct;2(4):200-6) utilizzano il citocromo C di varie candide per la diagnosi di cancro del polmone. Schwartze G. (Arch Geschwulstforsch 1980;50(5):463-7) suggerisce di utilizzare anticorpi specifici contro la candida nella diagnosi di melanoma maligno. Vecchiarelli D. (Am Rev Respir Dis 1993 Feb;147(2):414-9) evidenzia come colture supernatanti di macrofagi alveolari provenienti da pazienti con tumore del polmone, siano in grado di inibire l’attività fungicida delle cellule polimorfonucleate. Zanetta J.P. (Glycobiology 1998 Mar;8(3):221-5) individua lo stesso comportamento, cioè una accentuata capacità di legame nei confronti dell’IL-2, sia nella candida albicans che nei tumori. Ausiello C. (Ann Ist Super Sanita 1987;23(4):835-40), Giovannetti A. (Acta Haematol 1997;98(2):65-71) e Marconi P. (Int J Cancer 1982 Apr 15;29(4):483-8) riportano come un antigene (un mannoside) proveniente dalla parete della candida albicans, induca una citotossicità antitumorale nei linfociti del sangue periferico. Robinette E.H. Jr. (J Natl Cancer Inst 1975 Sep;55(3):731-3) descrive una notevole resistenza all’inoculazione di dosi letali di candida, in topi a cui sia stato preliminarmente impiantato un carcinoma polmonare di Lewis o di altri comparti anatomici. Cassone A. (Microbiologica 1983 Jul;6(3):207-20) e Weinberg J.B. (J Natl Cancer Inst 1979 Nov;63(5):1273-8) evidenziano una risposta antitumorale significativa in topi cui fosse stato inoculato materiale della parete cellulare di candida albicans. Favalli C. (Boll Soc Ital Biol Sper 1981 Sep 30;57(18):1911-5), Kumano N. (Tohoku J Exp Med 1981 Aug;134(4):401-9) e Cassone A. (Sabouraudia 1982 Jun;20(2):115-25) segnalano il potere immunoadiuvante antitumorale della parete cellulare della candida albicans. Ubukata T. (Yakugaku Zasshi 1998 Dec;118(12):616-20) riporta l’alto potere inibitorio sulla crescita della candida, da parte del siero e del liquido ascitico di un topo portatore di neoplasia. Esiste dunque, al di là di interpretazioni più o meno riduttive, un alto grado di parentela tra la candida e i tessuti tumorali. Considerando poi la infinita variabilità fenotipica del micete, unitamente alla estrema difficoltà di rinvenimento e di tipizzazione dei vari ceppi esistenti, appare legittimo inferire l’identità genetica tra cancro e candida nelle sue varie differenziazioni.

COSCO: In quest’ottica come spiega le metastasi?

SIMONCINI: Il fenomeno delle metastasi. Secondo le posizioni ufficiali, la metastasi rappresenta lo sviluppo di qualche cellula maligna che è sfuggita dalla sede primaria del cancro e che è migrata in un altro comparto anatomico. Secondo il mio punto di vista essa si sviluppa è vero, da cellule sfuggite dal cancro primitivo; solamente che l’unità di base non è una cellula impazzita, ma una cellula fungina che è riuscita a colonizzare un altro organo. L’eventualità e la sede delle metastasi poi, sono in funzione dello stato più o meno eutrofico degli organi e dei tessuti, che possono opporre così una resistenza più o meno efficace a contrastare il radicamento di nuove colonie. Esistono così varie possibilità di diffusione da un tumore primario, a parte quella locale: Assenza di metastasi, se gli altri organi, essendo sani, sono dotati di assoluta capacità reattiva. Formazione di una metastasi, laddove un organo presenti strutture cellulari o tessutali indebolite. Formazione di metastasi multiple in più sedi, quando ormai tutto l’organismo si sta spegnendo per cui tutti gli organi diventano aggredibili. La possibilità di metastatizzazione poi, dipende è vero dallo stato eutrofico dei vari tessuti ed organi, ma anche dalla capacità della candida di adattarsi metabolicamente a situazioni microambientali diverse, la qual cosa alla fine, favorendo la diffusione del micete, accentua l’indebolimento dei tessuti dove si è radicato di nuovo, in un processo di continua e costante demolizione delle capacità reattive dell’ospite fino alla resa. E’ chiaro allora in quest’ottica, come tutte le operazioni e i trattamenti che possiedano un certo grado di lesività nei confronti dei tessuti, possano risultare estremamente pericolosi, perché proprio in questo modo viene favorita la diffusione delle metastasi. Chirurgia, chemioterapia e radioterapia sono pertanto le prime cause di metastatizzazione, in quanto determinano sempre quelle condizioni di sofferenza tissutale tali, da predisporre i vari organi all’invasione tumorale.

COSCO: Quindi lei è sicuro che la Candida è il cancro?

SIMONCINI: In base alle argomentazione svolte, è legittimo affermare che la candida è la causa eziologica del cancro. Risulta difatti che essa: E’ sempre presente nei malati neoplastici. Può produrre metastasi. Ha un patrimonio genetico sovrapponibile a quello dei tumori. Può essere utilizzata per svelare precocemente il cancro. Può invadere ogni tipo di tessuto o organo. Possiede un’aggressività e una adattabilità illimitate e.. è stata dimostrata la sua capacità a promuovere la degenerazione neoplastica. Che cosa si vuole di più? Al di la delle elucubrazioni e distorsioni mentali, essa è realmente il cancro e va combattuta in quest’ottica in tutte le sue varianti patogenetiche. Così solo il cancro verrà sconfitto per sempre.


Giuseppe Cosco

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il fungo e il disserbante
ciao, leggendo in rete ho trovato tempo fà un articolo di valsè Pantellini dove parlava dell'ascorbato di potassio.
Premetto che non sono chimico e che quello che affermo di seguito è un ragionamento personale, mi sono imbattuto lavorando con un chimico che lavora nella edilizia e quando gli ho chiesto come faceva a non fare uscire le muffe la dove normalmente comparivano lui mi rispose -mescolo il fenolo nella vernice ad acqua, così la muffa non può nascere dato che il fenolo è come un disserbante e la muffa nera lo scheletro di un fungo- perchè vi dico questo? non sarà che in parte hanno ragione tutti e due intendo Simoncini e Pantellini?
se è vero che di un FUNGO stiamo parlando L'ASCROBATO DI POTASSIO unito alle vitamine potrebbero portare il veleno al fungo ovunque sia?
è una mia ipotesi personale ma se dovessi scegliere cosa fare contro un tumore non mi farei mai fare un lavaggio con acqua radioattiva nelle vene. Siamo nel 2009 apriamo i nostri occhi.
spero che sia utile meditare su questo.


Gianfrancesco Valsé Pantellini
Una scoperta avvenuta per caso, come quasi sempre avviene nella fisica e nelle scienze: non sono gli eventi grandi o piccoli siamo noi grandi se sappiamo meravigliarci anche delle piccole cose.

Gianfrancesco Valsè Pantellini nasce il 2 aprile 1917 a Rufina, un piccolo paese della Toscana dove vive fino al 1929 con il padre Italo e la madre Margherita. L'istinto di suo padre, che era medico, e la curiosità di ragazzo lo portarono sulla strada della ricerca scientifica; cominciò a dedicarsi a studi di elettrochimica con la complicità del farmacista del paese. Proseguì i suoi studi a Firenze, prima al collegio La Querce poi al liceo Michelangelo dove conseguì la licenza liceale da privatista, facendo tre anni in uno solo. Nel 1936 si iscrisse all'Università di Firenze, Facoltà di Chimica pura ad indirizzo organico biologico.

I suoi studi furono interrotti dalla guerra ma egli fu sempre attivo prestando servizio come ufficiale chimico nel Genio Guastatori; ebbe varie destinazioni tra cui Udine, Russia, Francia. Nel 1943 conobbe a Roma il famoso matematico Luigi Fantappiè. Finita la guerra riprese gli studi universitari a Firenze laureandosi nel 1947 in Chimica pura ad indirizzo biologico. Poi per un anno frequentò l'Istituto di Fisica Teorica di Napoli. A Parigi conobbe il fisico Louis Kervran ed approfondì le sue ricerche sulla fusione a freddo nel corpo umano. Rientrato a Firenze passò ad Ancona al centro Autonomo Tumori, dove fece le sue prime esperienze, collaborando per più di un anno con i professori Protti, Gusso e Neubauer dove seguì indagini di Ricerca enzimatica dei lieviti e dell'azione Piroerte dei medesimi nei confronti della cellula neoplastica.

Nel 1948, ritornato a Firenze, pur occupandosi di piccole industrie farmaceutiche, in privato si dedicò alla ricerca sui tumori. Ha partecipato con comunicazioni personali ai congressi di Cancerologia di Firenze, Cremona, Baden Baden, New York, ecc. Appartiene ad un gruppo internazionale di ricerca sul cancro con metodiche non convenzionali, per questo è stato eletto Membro dell'Accademia delle scienze di New York e della società Internazionale di Criochirurgia.

La scoperta avvenne veramente per puro caso a Firenze nel 1947. C'era allora a Firenze un uomo, orefice fiorentino, di nome Giovanni, che Valsé Pantellini conosceva bene; questi si ammalò di un tumore allo stomaco. Visitato dal prof. Valdoni fu dichiarato inoperabile; non gli restavano che pochi mesi di vita. Il povero orefice soffriva pertanto di forti dolori allo stomaco, Valsé Pantellini gli consigliò delle limonate con del bicarbonato; e dopo un anno, preoccupato dello stato di salute di Giovanni, andò a trovarlo a casa, e lo trovò completamente ristabilito, anzi in perfetta forma. Sorpreso, gli chiese allora che cura avesse mai fatto e lui gli rispose che continuava a prendere solo le limonate con il bicarbonato, cosa che stava facendo proprio in quel momento. Valsé Pantellini guardò incuriosito il barattolo da cui Giovanni attingeva con un cucchiaino la piccola dose di bicarbonato; vide che quel barattolo aveva un aspetto insolito, lo girò per leggere l'etichetta e si accorse che era sì bicarbonato, ma di... potassio! Quell'uomo visse altri venti anni, poi morì d'infarto.

"Ebbi come una botta in testa" - raccontò un giorno Valsé Pantellini, vedendo il repentino prodigio verificatosi in Giovanni a causa di quell'errore. "Feci fare i controlli perché credevo che avessero sbagliato le radiografie, invece no, erano proprio le sue. Questo fatto mi fece riflettere molto e cominciai a ragionare sul fatto accaduto" scrive Valsé Pantellini. Fu allora che andò a riguardarsi i risultati di una vecchia ricerca fatta da Moraweck e Kishi nel 1932, i quali avevano messo in evidenza l'alta percentuale di potassio all'interno delle cellule sane, e la bassa percentuale di potassio nel tessuto neoplastico e nei tessuti non neoplastici dei portatori di tumori maligni.

www.pantellini.org/gianfrancesco.asp

comunque deve trmare chi di dolore vuole godere [SM=x1787336]
stiamo arrivando e come disse benigni in jonny stecchino caput a voi e alle vostre famiglie [SM=x1787344] corrotte aggiungo io!
[Modificato da natur75 23/02/2009 08:55]
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Re: il fungo e il disserbante

ciao, leggendo in rete ho trovato tempo fà un articolo di valsè Pantellini dove parlava dell'ascorbato di potassio.
Premetto che non sono chimico e che quello che affermo di seguito è un ragionamento personale, mi sono imbattuto lavorando con un chimico che lavora nella edilizia e quando gli ho chiesto come faceva a non fare uscire le muffe la dove normalmente comparivano lui mi rispose -mescolo il fenolo nella vernice ad acqua, così la muffa non può nascere dato che il fenolo è come un disserbante e la muffa nera lo scheletro di un fungo- perchè vi dico questo? non sarà che in parte hanno ragione tutti e due intendo Simoncini e Pantellini?
se è vero che di un FUNGO stiamo parlando L'ASCROBATO DI POTASSIO unito alle vitamine potrebbero portare il veleno al fungo ovunque sia?
è una mia ipotesi personale ma se dovessi scegliere cosa fare contro un tumore non mi farei mai fare un lavaggio con acqua radioattiva nelle vene. Siamo nel 2009 apriamo i nostri occhi.
spero che sia utile meditare su questo.



Il ragionamento fila. Sono dell'idea che se i due metodi hanno dei risultati non possono essere in contraddizione, quindi se il cancro si comporta come un fungo, ciò che elimina il fungo elimina il cancro, indipendentemente dal tipo di sostanza.
L'elemento che non si tiene in considerazione in questo tipo di cura è la causa diciamo psicosomatica di fondo che per me rimane la causa principale di ogni malattia. Ma se si ottengono buoni risultati non vedo perchè non usare questi approcci alternativi, o meglio capisco il perchè non si usano..

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siero caprino contro il cancro
Zen leggi questa, eravamo a tavola con mio padre e mi ha detto di questa scoperta fatta da un veterinario, l'ho cercata e la riporto.
Tagliamo la testa a metà al serpente e saremo liberi!!!!

DAL SIERO BONIFACIO ALL’IMMUNOMODULANTE BIOLOGICO

Oggi la parola cancro incute terrore: si ha paura perfino di pronunciarla, si cercano eufemismi come malattia incurabile, malattia del secolo, male oscuro e così via: ma questa stessa parola, per pochi, solo per pochi, vuol dire potere, denaro.

Negli ultimi 50 anni sono stati spesi migliaia di miliardi per la ricerca sul cancro, gestiti dai vari centri tumore e dalle associazioni che nascono come funghi e gravitano attorno a questi stessi centri. I risultati fino ad oggi sono fallimentari, infatti, nonostante qualche battaglia vinta, non si è in grado di curare il cancro.

La sfiducia nella medicina ufficiale spinge sempre più i portatori di cancro a rivolgersi altrove, ovvero verso le cosiddette terapie diverse, che quantomeno non hanno gli stessi poteri devastanti delle chemio e radioterapie.

La medicina ufficiale, di contro, si consente il lusso di ignorare queste terapie e nei casi in cui le stesse riescono a superare i limiti della ghettizzazione in cui sono state relegate, la cittadella medica, anche a cannonate, tenta di distruggere, senza nemmeno provare a capire quanto di valido in esse è contenuto.

“Distruggere senza pietà tutto ciò che può interferire, anche minimamente, in quell’enorme e faraonica holding che è il pianeta cancro” è la loro parola d’ordine.

Emblematico per noi italiani è il dramma del cosiddetto siero Bonifacio, che si dibatte insoluto da 34 anni, tra alterne vicende, lunghi silenzi, giustificate speranze, concrete certezze. Liborio Bonifacio, veterinario in un paesino della provincia di Salerno, Agropoli, negli anni ‘50, durante l’espletamento della sua professione, ora nelle campagne del Cilento, ora nei macelli dell’agro agropolense, fu stupito nell’osservare di non aver mai riscontrato forme neoplastiche nei caprini che quotidianamente venivano macellati, a differenza di quanto accadeva nelle altre specie animali, quali suini, ovini, bovini, ed altri. “Che questa specie sia refrattaria ai tumori? E se è così, perché non cercare di trasferire questa loro tipica immunità o immunoresistenza nell’uomo?” (La mia cura contro il cancro di L. Bonifacio - Savelli Editori).

Ma il problema, per Bonifacio, era da dove estrarre quella sostanza in grado di trasferire l’immunità della capra all’uomo. Indubbiamente doveva essere cercata a livello di un sistema o apparato che coinvolgesse tutto l’organismo dell’animale, non sapendo egli stesso quale fosse la causa di quella immunità naturale o acquisita. Dopo giorni, mesi, di prove e riprove su cavie ed altri animali da esperimento (Bonifacio si era creato un vero e proprio laboratorio), decise di estrarlo dalle feci, all’interno dell’intestino dell’animale macellato. Questa fu l’intuizione e così nacque quello che poi venne definito impropriamente siero Bonifacio .. “Si estraggono, all’interno della capra macellata, le feci e si mescolano con urina, prelevata dalla vescica dello stesso animale, aggiungendo circa 1/3 di acqua bidistillata. Si lascia macerare il tutto per circa 48 ore. Si filtra...” ( La mia cura contro il cancro di L. Bonifacio - Savelli Editori). La voce degli esperimenti di Bonifacio cominciò presto a spargersi ad Agropoli, destando la curiosità di qualche medico del luogo, che invitò lo stesso Bonifacio a presentare il suo prodotto ad alcuni specialisti di Salerno, era il 1954, anno della prima cocente delusione. Il direttore della Scuola di Ostetricia di Salerno, dopo esperienze positive su cavie prima e su pazienti poi, cercando di trarne il massimo vantaggio, chiese a Bonifacio la formula del siero, pena la comunicazione di dati negativi al Ministero della Sanità! Bonifacio, avvertito in tempo delle intenzioni poco oneste di detto professore, rifiutò di dare la formula.

Ormai si era però innescato un meccanismo a macchia d’olio, per cui la notizia degli esperimenti portati a termine alla Scuola di Ostetricia di Salerno, aveva varcato i confini della città, della provincia, della regione. Bonifacio era ormai noto alla stragrande maggioranza degli italiani. Cominciarono i primi lunghi pellegrinaggi ad Agropoli, alla ricerca del siero della speranza, la gente faceva ore di fila, le distribuzioni dell’anticancro si susseguivano a ritmo incessante, frenetico, le richieste divennero migliaia, i medici attestavano i miglioramenti su pazienti ormai votati a sicura morte.

Nonostante tutto questo, si era così giunti al 1969, dei santoni della medicina ufficiale nessun segno, ma ancora più delittuoso era il silenzio di coloro che avevano l’obbligo di salvaguardare la salute pubblica, ovvero ministri, sottosegretari, direttori generali, insomma i facenti parte di quel carrozzone definito Ministero della Sanità. “Niente. Non si mosse niente”. Ma ecco la svolta decisiva: il giornale Epoca, nella sua rubrica Storie impossibili, cominciò ad interessarsi della vicenda, pubblicò una lunga serie di articoli, portando testimonianze dirette, documentando i buoni risultati ottenuti con il siero, aiutando Bonifacio a creare un nuovo laboratorio per la produzione, essendo divenuta la richiesta sempre più pressante e continua, non solo dall’Italia, ma anche dall’estero.

Fu così che l’allora Ministro della Sanità, Camillo Ripamonti, il 31 luglio 1969, comunicò ad Epoca, con una lettera aperta, la decisione di aprire il “caso Bonifacio”, affidando l’esame preliminare sui fondamenti scientifici del metodo di cura al Prof. Valdoni, per poi eventualmente sperimentare il preparato negli Istituti Nazionali per il Cancro di Milano, Napoli e Roma, nonché presso l’Istituto di Oncologia dell’Ospedale Maggiore S. Giovanni Battista di Torino. L’11 agosto 1969, Bonifacio si incontrò con il prof. Valdoni, il quale, dopo un colloquio di quattro ore, stabilì di fare l’esperimento nei suddetti quattro centri, per la durata di sei mesi e su cento pazienti complessivamente.

A settembre Bonifacio consegnò il prodotto all’Istituto Superiore di Sanità, per le prove batteriologiche e di tossicità.

Improvvisamente il voltafaccia: i direttori dei quattro centri tumori si riunirono e decisero di ridurre gli esperimenti ad un solo Istituto, quello di Roma, mentre il prof. Valdoni veniva totalmente estromesso dalla questione, ed il Ministro emanava il seguente decreto: “Per la vasta risonanza suscitata nella pubblica opinione dalle notizie, largamente diffuse dalla stampa d’informazione, concernenti le asserite proprietà antitumorali di un prodotto biologico di provenienza animale, preparato dal veterinario dottor Liborio Bonifacio. Visto l’esito favorevole delle indagini espletate dall’Istituto Superiore di Sanità in merito alla innocuità e sterilità del prodotto e tenendo presente l’opportunità di promuovere una approfondita sperimentazione del prodotto anche sul piano clinico, allo scopo di acquistare ogni più utile elemento di giudizio. Il Ministro emana il seguente decreto composto di quattro articoli. Articolo 1: è istituita una commissione con l’incarico di condurre, presso l’Istituto Regina Elena per la cura e lo studio dei tumori in Roma, uno studio clinico sperimentale su degenti opportunamente selezionati, allo scopo di vagliare gli effetti terapeutici del preparato in narrativa.

Articolo 2: La Commissione è composta come appresso: On.le Prof. Pietro Bucalossi, direttore dell’Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori di Milano, presidente; Prof. Antonio Caputo, direttore dell’Istituto Regina Elena per la cura e lo studio dei tumori di Roma, componente; Prof. Giovanni d’Errico, direttore della Fondazione Senatore Pascale, Istituto per lo studio e la cura dei tumori di Napoli, componente; Prof. Giovanni Battista Marini Bettolo Marconi, direttore generale dell’Istituto Superiore di Sanità, componente; Prof. Luigi Nuzzolillo, direttore generale dei servizi di medicina sociale presso il Ministero della Sanità, componente. Le funzioni di segreteria sono svolte dai signori: Dott. Gaetano Di Stefano, ispettore generale medico e direttore della divisione per la lotta contro i tumori, in servizio presso la direzione generale dei servizi di medicina sociale del Ministero della Sanità; Dottor Alfonso D’Abbiero; medico provinciale capo, in servizio presso la direzione generale dei servizi di medicina sociale del Ministero della Sanità. Articolo 3: La Commissione di cui innanzi, nell’espletamento del proprio mandato, si avvarrà dei presidi strumentali esistenti presso l’Istituto Regina Elena per lo studio e la cura dei tumori di Roma, nonché del personale medico e tecnico ivi in servizio, integrato, eventualmente, da quello in servizio presso gli Istituti di Milano e di Napoli.

Articolo 4: Entro il termine tassativo di mesi sei, la Commissione assegnerà al Ministro della Sanità una dettagliata relazione, concernente le modalità seguite nella sperimentazione ed i risultati conseguiti. Il Ministro della Sanità trasmetterà poi detta relazione al Presidente del Consiglio Superiore di Sanità che, prima di riferirgli in merito, è invitato a sentire il parere del predetto consesso.” così, tra le proteste generali, ebbe inizio quella che fu da tutti definita la “sperimentazione burla” del siero. Infatti, il 29 maggio 1970, dopo appena 16 giorni di sperimentazioni cliniche e su soli otto pazienti, la Commissione Bucalossi assegnava al Ministro il vile verdetto:

“L’anticancro Bonifacio è dichiarato inefficace. Non cura i tumori e non ha alcuna azione sulla loro sintomatologia”.

Perché tanta fretta a chiudere la sperimentazione dopo appena 16 giorni e non dopo i sei mesi previsti dal decreto ministeriale? Perché su soli otto pazienti e tutti in fase preagonica?

Bonifacio si pose tutti questi interrogativi e con lui migliaia di persone.

Forse perché i componenti della Commissione Bucalossi temevano di vedere sempre più svuotati i loro mega-Istituti? Forse perché le case farmaceutiche temevano di non vendere molte delle loro specialità medicinali inutili e dannose? Forse perché proprio in quel periodo cominciava a nascere quella holding dei chemioterapici antiblastici che coinvolgeva le multinazionali farmaceutiche e i direttori dei centri tumori? Forse perché altre nazioni cominciavano ad interessarsi del problema? Bisognava assolutamente chiudere il caso Bonifacio, presto e definitivamente.

Lo stesso Bonifacio, sdegnato, si ritirò ad Agropoli, cercando di dimenticare tutta la vicenda, che gli aveva solo procurato un’infinità di amarezze e delusioni.

Il problema scientifico della validità del prodotto era, quindi, rimasto insoluto.

E’ nel 1979, ormai a 29 anni dall’intuizione di Bonifacio, che venimmo coinvolti nell’annosa vicenda, apparentemente in modo banale; uno di noi aveva letto di Bonifacio La mia lotta contro il cancro del 1970, ma in realtà i motivi che ci spinsero ad intraprendere questa avventura scientifica erano ben altri; eravamo stanchi di osservare, impotenti, pazienti affetti da malattia neoplastica, dibattersi tra atroci sofferenze, potendo solo intervenire con le terapie ufficiali, che ci concedevano risultati minimi e temporanei. Georges Mathè, il più noto cancerologo francese, nel suo libro inchiesta sul cancro, così si esprimeva: “Non è impossibile che attualmente, con questa moda delle chemioterapie totali, questo metodo terapeutico uccida più malati di quanti non ne guarisca”. Eravamo alla ricerca di qualcosa di alternativo, diverso, che potesse almeno farci schiudere nuovi orizzonti.

Ottenuto il siero dallo stesso Bonifacio, costituimmo una vera e propria équipe, composta da due medici e due biologhe, coadiuvati da personale tecnico specializzato. Cominciammo a preparare un programma di lavoro finalizzato, che ci avrebbe permesso di studiare il prodotto sugli animali prima e sull’uomo poi, il tutto integrato da una serie di ricerche chimiche, biochimiche e microbiologiche. I risultati ottenuti sugli animali, in uno studio preliminare, furono entusiasmanti e qui di seguito vi proponiamo alcuni passi del lavoro scientifico sperimentale, da noi presentato al convegno medico di Saturnia nel novembre 1980, sul tema L’anticancro Bonifacio:

riesame 1980.

Istituto di Oncologia dell’Università di Messina.

Abbiamo studiato l’azione biologica del siero del dott. Bonifacio su animali da esperimento, poiché qualunque sostanza farmacologica, prima di essere applicata all’uomo, viene di prassi provata su animali da laboratorio che presentino dei caratteri non variabili nel tempo e con il susseguirsi delle generazioni. Nel caso specifico, abbiamo usato dei topi imbreed del ceppo Balb/c+; come è noto, tale ceppo è caratterizzato dal fatto di presentare una elevata insorgenza di tumori spontanei della mammella. Siamo quindi dinanzi ad un tipo di sperimentazione che già di per se stessa si presenta difficoltosa, ma nel contempo molto significativa, difficoltosa poiché questi topolini, essendo soggetti ad una elevata incidenza di carcinomi spontanei, presentano senza alcun dubbio, a livello genetico, una alterazione di caratteri che diviene sempre più seletiva con il passare delle generazioni: è come se l’insorgenza e la trasmissione ereditaria del tumore, con il passare delle generazioni, divenisse carattere dominante. Questo è già un punto a nostro svantaggio, poiché l’azione di qualunque farmaco, o sostanza, potrebbe essere annullata da un siffatto sistema genetico.

Inoltre, i carcinomi che insorgono spontaneamente, così come quelli da trapianto, hanno una velocità di accrescimento notevole, portando a morte i topolini in media dopo circa 50 giorni dall’insorgenza e raggiungendo dimensioni che per l’uomo sarebbero assurde. Passiamo ora ad elencare i punti su cui abbiamo accentrato la nostra attenzione.

1) Azione preventiva del siero Bonifacio sull’attecchimento del carcinoma da trapianto.

2) Stadio in cui la neoplasia risente maggiormente di tale terapia e prolungamento dell’arco di sopravvivenza dei topi trattati. Per quanto concerne il primo punto, cioè se il siero esplica un’azione preventiva sull’attecchimento del tumore, abbiamo preso in esame 60 topolini di entrambi i sessi tra il 18° ed il 24° giorno di età e li abbiamo pretrattati con il prodotto; quindi si è proceduto al trapianto della neoplasia.

Si è così visto che nel 20% dei casi il tumore non compare affatto; nel 12% compare dopo 30 giorni; nel 68% compare dopo 155 giorni, s’intende dal momento del trapianto.

Questi dati sono di importantissimo valore, poiché nel ceppo Balb/c+, la neoplasia da trapianto attecchisce nel 100% dei casi e si manifesta sempre e non oltre il 7°-10° giorno.

I risultati sopra citati, a nostro avviso, inducono a continuare tale linea di ricerca, poiché il profilarsi di una azione preventiva del siero Bonifacio sul cancro, ha già delle ottime premesse per potere essere ulteriormente sviluppata.

Consideriamo ora il secondo punto: alcuni gruppi di topi sono stati trattati con il prodotto Bonifacio a partire da vari stadi di sviluppo della neoplasia, applicando il trattamento a cicli e la via di somministrazione intramuscolare.

A 40 topolini si è inoculato il prodotto non appena la neoformazione aveva raggiunto le dimensioni di 0,5 mm. In questo caso si è verificata la scomparsa totale della massa nel 78% dei casi. Tale scomparsa inizia a manifestarsi dopo appena 4 giorni dal momento del trattamento, la massa stessa è ridotta a metà dopo 6 giorni e scompare del tutto in 8° giornata. A questo punto si è sospesa la somministrazione ciclica del prodotto e si sono soltanto inoculate dosi di mantenimento, con periodi di intervallo tra l’una e l’altra sempre più distanziati nel tempo. In questi topi, sino ad oggi, non è assolutamente ricomparso alcun segno della neoplasia. Nel restante 22% dei casi la neoplasia si accresce, ma molto più lentamente che nei controlli.

Questi risultati sono da considerarsi eccezionali poiché, se si considera quanto già detto nella premessa, ovvero la velocità di crescita di tale tipo di neoplasia ed il ceppo di topi su cui essa si sviluppa, ci si può ben rendere conto di quale valore sia l’ottenere un 78% di remissioni totali della massa, senza ulteriore ricomparsa nel tempo di alcun segno di malignità.

Ad altri 40 topolini si è somministrato il prodotto non appena il tumore aveva raggiunto le dimensioni di 1 mm. In tal caso non si è verificata alcuna regressione totale della massa, comunque anche in questo caso l’accrescimento è molto più lento rispetto ai controlli. Altri 40 topolini sono stati trattati non appena la neoplasia aveva raggiunto le dimensioni di 4 mm. In tal caso essa si sviluppa in tempi più lunghi rispetto ai controlli, pur essendo l’aumento della massa maggiore nel rapporto mm/giorni, facendo raffronto con i topolini trattati a partire da dimensioni minori.

Altri 40 topolini sono stati infine trattati a partire da una massa tumorale di 9 mm; anche in questo gruppo la neoplasia si accresce i n tempi più lunghi rispetto ai controlli.

Dalle esperienze sopra descritte, è evidente che il siero Bonifacio esplica un’attività antitumorale, che diviene notevole se la terapia è applicata ai topolini portatori di neoplasie non ancora allo stadio terminale, determinando un’alta incidenza di remissioni totali della massa tumorale (78%), che tra l’altro è irreversibile nel tempo. E’ ovvio che la scomparsa totale del tumore diviene improbabile quando la massa è giunta a dimensioni notevoli.

A completamento della nostra linea di ricerca, abbiamo trattato con il prodotto alcuni topolini in cui si era verificata l’insorgenza spontanea di un cancro della mammella. Come è risaputo, in questo ceppo si osserva la comparsa, quasi contemporanea alla massa principale, di metastasi alle mammelle omolaterali e controlaterali. Quindi siamo partiti da condizioni ancora più svantaggiate rispetto ai topi trapiantati. In questi animali si è assistito ad un vero e proprio fenomeno di svuotamento del carcinoma promotore, con fuoriuscita di cellule neoplastiche in necrosi e diminuzione consistente del volume delle metastasi presenti, tutto ciò non è stato mai osservato nei topi di controllo.

Concludendo, i risultati positivi da noi ottenuti con il siero Bonifacio possono essere così riassunti:

1) Scomparsa totale di masse neoplastiche pari a 0,5 mm. 2) Rallentamento notevole della velocità di accrescimento delle cellule neoplastiche, a partire da qualunque stadio della neoplasia. 3) Prolungamento dell’arco di sopravvivenza dei topi, siano essi portatori di tumori spontanei o da trapianto.

4) Attività preventiva del siero Bonifacio sull’attecchimento delle neoplasie.

Concludemmo la nostra relazione tra gli applausi dei partecipanti al convegno: era la prima volta, dopo 30 anni, che qualcuno comunicava dei risultati scientificamente validi sul siero Bonifacio ed inoltre

quel qualcuno faceva parte di una équipe di lavoro operante in una struttura universitaria, per di più oncologica. Praticamente era stato smentito, con dati alla mano, l’operato della Commissione Bucalossi, che nel 1970 aveva definito il siero innocuo ma inefficace.

Avevamo così riaperto un doloroso capitolo della storia della medicina italiana e questa volta senza preconcetti, senza raggiri, senza promesse mai mantenute.

Non era più un misero e solo veterinario di provincia a combattere contro i colossi della medicina, questa volta al suo fianco c’erano, dati alla mano, dei ricercatori facenti parte di quella stessa scienza ufficiale che lo aveva sempre osteggiato e boicottato. Gli eravamo vicini, non solo per affetto o ammirazione, ma perché consci di quel che affermavamo: i risultati biologici parlavano chiaro, il prodotto Bonifacio meritava più accorti e approfonditi studi. Cosa succederà da quel famoso novembre 1980, avrà del rocambolesco e del drammatico insieme, ma niente e nessuno riuscirà a farci desistere dal cammino intrapreso per il bene della scienza e forse anche dell’umanità sofferente.

Ma torniamo agli avvenimenti: dal 23 novembre 1980 la stampa ricominciò ad interessarsi del siero, i risultati comunicati a Saturnia vennero diffusi da tutti i quotidiani italiani e da molti settimanali. Il caso Bonifacio era riaperto, questa volta non si poteva più imbrogliare o tacere; l’opinione pubblica italiana, sicuramente più smaliziata che nel ‘70, voleva la verità e questo faceva sicuramente paura a chi tentò allora di chiudere la partita.

Anche altri studiosi cominciarono ad interessarsi del problema, ed altri risultati scientifici si aggiunsero ai nostri: l’Istituto di Microbiologia medica dell’Università di Bari, lo stesso CNR di Milano, attraverso un’équipe di ricercatori, a parte poi le certificazioni mediche provenienti da singoli colleghi o da strutture ospedaliere, che attestavano miglioramenti indiscussi, sia della sintomatologia che delle masse tumorali, sia primarie che metastatiche.

La stampa, dal canto suo, iniziò un martellante tambureggiamento, allo scopo di sollecitare i gestori dell’oncologia italiana e lo stesso Ministero della Sanità, nella persona dell’allora Ministro Renato Altissimo, a prendere visione dei risultati dei nuovi studi. Dopo un iniziale silenzio, durato quattro mesi, la paura iniziò a serpeggiare tra coloro che avevano sperato che il tutto finisse in una bolla di sapone e cominciarono così le prime assurde e vili risposte. La scienza ufficiale cercava di difendersi, contrattaccando. In una intervista rilasciata al mensile Salve nell’aprile ‘81, tre illustri scienziati si consentirono affermazioni gratuite, che purtroppo qualificavano, anzi, meglio, squalificavano la scienza italiana. Prof. Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano: “Su questo siero non ho finora trovato pubblicazioni. Se lei ne ha, me le procuri! Perché i gruppi che fanno queste cose non sono in genere qualificati per fare questo tipo di ricerca. Non è gente nota per aver fatto ricerche in campo antitumorale, a livello di studi clinici controllati. Mi pare che non esistano ragioni per un revival di questo prodotto.” Dott. Silvio Monfardini, dell’Istituto dei tumori di Milano, segretario dell’associazione italiana di oncologia medica: “Esistono alcune caratteristiche comuni agli scopritori e propagandisti di tutti questi metodi: persone che tendono ad essere isolate dalla comunità scientifica ufficiale, non usano i canali di comunicazione tradizionale dei ricercatori, sono affette in genere da complessi di persecuzione, per cui la scienza sarebbe contro di loro e li ostacolerebbe in tutti i modi. Il pericolo, direi, di metodi del tipo in questione, è che pazienti, i quali potrebbero giovarsi di terapie tradizionali di sicura efficacia, come la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia antitumorale, vadano in mano a chi li sottopone a pratiche di nessuna efficacia. Con danno per il paziente, con perdita di tempo, di soldi, e di serie opportunità di guarire”.

Dott. Alberto Scanni, del Centro di chemioterapia antiblastica presso l’ospedale Fatebenefratelli di Milano: “Non si sa che cosa sia. E secondo me rientra in quella sfera di sostanze e gesti magicomisteriosi. No, scusi, come potrei accettarlo? Intanto l’ho già detto, non si può sperimentare direttamente sull’uomo, è immorale. Ma neanche per sogno. Io non ci credo, a questo siero”.

Il fiore all’occhiello, in ultimo, lo pose un anno dopo, nell’aprile ‘82, il Prof. Alfredo Leonardi, con il suo articolo pubblicato sul notiziario della Associazione italiana per la ricerca sul cancro: “La nostra posizione non può essere che negativa, per alcune semplici ragioni. Anzitutto la legge prescrive che ogni nuovo farmaco debba essere studiato dal punto di vista farmacologico e tossicologico prima di essere utilizzato nell’uomo. E’ certo che il cancro è accompagnato da molta emotività, ma è indispensabile continuare a pensare in termini razionali se si vuole evitare di ritornare alla stregoneria”. Cosa si poteva rispondere a tanta ottusità, a tanti preconcetti voluti, creati? Volevano lavori scientifici già pubblicati, ovvio, erano loro stessi a gestire le riviste scientifiche, quindi non avrebbero avuto alcuna difficoltà a bocciarli; erano loro stessi che gestivano e gestiscono i congressi, nazionali e non, quindi anche in questo caso avrebbero potuto giudicare i lavori non graditi.

Non eravamo gente nota! Non ci pensavano due volte a smentire anche autorevoli colleghi che si erano interessati al prodotto: “Il fine giustifica i mezzi”. Bonifacio non aveva mai sofferto di complessi di persecuzione ed aveva sempre distribuito il prodotto gratuitamente, quindi di quale speculazione, caro Monfardini? Dalla sua intervista traspariva chiaramente la paura di perdere la clientela, di vedere svuotati gli Istituti del cancro. Noi cominciavamo a trattare i casi solo quando “Loro” li avevano ampiamente massacrati con le loro terapie antiblastiche o con le alte energie, quei pazienti che avevano già ricevuto il benservito nei loro mega-istituti. E poi, non è sufficiente, dott. Scanni, affermare che è immorale provarlo sull’uomo, la Commissione Bucalossi lo aveva già fatto nel 1970, commissione composta da illustri oncologi, ed inoltre quanti antiblastici, vere bombe biologiche, vengono a tutt’oggi usate nella terapia contro il cancro, pur conoscendone i nefasti effetti secondari sull’ uomo? Non è sufficiente affermare “Io non ci credo a questo siero”. Lei così ricade nello stesso errore di cui accusa Bonifacio e noi. Il suo parere non ha nessuna importanza espresso in questo senso, lei prima lo esperimenti onestamente e scientificamente e poi semmai può esprimere un giudizio in tal senso.

Chi lavorava al siero Bonifacio non si fermò lo stesso: cominciammo a parlare di azione immunomodulante, che si esplicava sia sull’immunità cellulare che su quella umorale; di azione di blocco della trascrizione su nuclei isolati o su cellule isolate. L’opinione pubblica venne ancora sollecitata dal lavoro di scienziati, di équipe organizzate, di medici generici, di specialisti, che coralmente affermavano la validità di questo prodotto.

L’acme si raggiunse quando Il Giornale d’Italia pubblicò un’intervista fatta ad Hans Ruesch, giornalista specializzato nella pubblicazione di drammatici libri e reportage sulla speculazione farmacologica a danno della salute umana, di cui riportiamo qualche passo: “Pare che una di quelle Associazioni per le cosiddette ricerche sul cancro, che spuntano come funghi in Italia e in tutto il mondo, si sia proposta addirittura di raccogliere cinque miliardi nell’arco di un anno. Altro che pozzi di petrolio. Insomma, si tratta di una truffa bella e buona, a livello internazionale, complici gli organi del potere, attraverso le varie autorità sanitarie di cui possono far parte unicamente i membri ubbidienti del sindacato chimico-medico, il quale, essendo il più redditizio, in tutti i paesi industrializzati, detta legge, a scapito del contribuente e della salute pubblica”.

Continuando, a proposito delle terapie ufficiali anticancro: “Difatti il più delle volte l’ammalato non fa in tempo a morire di cancro, perché viene ucciso molto prima dalla terapia inflittagli da una metodologia nefasta, ma altamente redditizia per chi l’ha imposta. Al riguardo ricordo che nel luglio del 1980, in occasione delle esequie dell’ex Scià dell’Iran, Reza Pahlevi, il massimo chirurgo statunitense, dott. Michael De Bakey, dichiarò testualmente alla televisione: “E’ la chemioterapia intensa per arginare il suo cancro, che ha indebolito la sua resistenza all’infezione ed è l’infezione non il cancro, che ha ucciso lo Scià”. La conferma viene, tra l’altro, da una vasta indagine condotta negli Stati Uniti, in un arco di 23 anni, dal dott. Hardin B. Jones, fisiologo dell’Università di California, e conclusasi nel 1975, con la quale si è stabilito che per gli ammalati di cancro che si sono rifiutati di sottoporsi a qualsiasi terapia tradizionale, la sopravvivenza media è stata di 12 anni e mezzo, mentre quelli che si sono sottoposti alla terapia tradizionale - operazione, chemioterapia e irradiazione - sono morti in media entro 3 anni”.

Cominciarono così una serie di interrogazioni parlamentari, nelle quali vari deputati di tutti i partiti politici, chiedevano lumi e chiarezza al Ministro Altissimo il quale, fino a quel momento, aveva tenuto un atteggiamento di attesa, o forse meglio un “no comment”, onde evitare di crearsi delle inimicizie tra i suoi collaboratori, cioè i big dell’Oncologia, ed i sostenitori di Bonifacio. Ma ormai i tempi erano caldi, caldi a tal punto che l’onorevole Ministro per rinfrescarsi si sarebbe dovuto rifugiare in Alaska.

Migliaia erano ormai i certificati medici, inviati ad autorità e giornali, attestanti i miglioramenti ottenuti con la cura Bonifacio, migliaia le lettere aperte ai direttori di molti quotidiani, ma il colpo di scena si ebbe quando un magistrato della nona sezione della pretura di Roma, il dott. Elio Cappelli, ordinò ad Altissimo un rapporto urgente su tutta la questione; a questo punto il Ministro della Sanità ordina una nuova e più approfondita verifica del siero Bonifacio.

Corre l’obbligo di precisare alcune cose molto interessanti: il Ministro si mosse solo dopo l’iniziativa del magistrato, chiaro segno che anche alla Sanità temevano gli sviluppi di una situazione per troppo tempo e volutamente tenuta sotto silenzio; la eventuale e nuova approfondita verifica non avrebbe dovuto ricalcare quella beffa eseguita nel 1970; ed ancora, questa volta non avrebbero potuto tenere fuori dal gioco né Bonifacio, né noi, né tutti coloro che, sia sperimentalmente che clinicamente, ne avevano dimostrato l’efficacia.

Nell’enunciare questi fatti, che si susseguivano a ritmo continuo, abbiamo un po’ tralasciato di raccontare tutto ciò che insieme a Bonifacio nel frattempo stavamo preparando. Consci dell’ambiguità ed anche della disonestà, più volte manifestata dai baroni della medicina e dagli stessi uomini politici coinvolti nella holding medica, cercavamo di organizzarci in maniera fattiva e valida. Stabilimmo di creare, con Bonifacio, un’Associazione che avesse come suo precipuo compito quello di portare innanzi il discorso scientifico di ricerca, insieme a quello casistico clinico.

Così chiedemmo aiuto al Comune di Agropoli, al sindaco protempore ed a tutto il consiglio comunale, nella sua veste spiccatamente sociale e non politica.

Il 16 gennaio 1982, in una seduta straordinaria dello stesso consiglio comunale, presenti Bonifacio e noi stessi, di fronte ad una folla di giornalisti, televisioni private e non, il consiglio accettò l’associazione per lo studio del siero Bonifacio e si fece garante dei fini istituzionali della stessa, provvedendone al controllo. Inoltre mise a disposizione dei locali comunali, ove potesse continuare la distribuzione gratuita del prodotto nei giorni di sabato e domenica. Cominciammo, così, una più stretta e fattiva collaborazione con lo stesso Bonifacio, ma quel che più importava, potevamo venire a contatto diretto con le migliaia di ammalati o loro parenti, allo scopo di raccogliere una valida documentazione medica, cosa che fino ad allora Bonifacio non aveva mai fatto. Fra l’altro, oltre lo studio sperimentale e clinico, nell’ambito dell’Associazione ci proponevamo di creare un vero e proprio comitato scientifico, composto da personale qualificato, che ci consentisse in qualunque momento di controbattere le decisioni ministeriali con dati alla mano. Si cominciò la spola tra Messina ed Agropoli tra disagi indicibili, si viaggiava in treno, in seconda classe, si mangiavano panini, quando era possibile, per risparmiare. In quei locali comunali c’era un freddo terribile, la gente in fila, ordinata, ognuno con la propria documentazione e con tanta pena nel cuore, veniva da noi a consegnare cartelle cliniche, certificati medici, o soltanto a chiedere una parola di conforto. Terminavamo questo lavoro di casistica, di catalogazione, a tarda sera e velocemente si riguadagnava la stazione per ripartire, stanchi, distrutti, ma sicuramente contenti per quello che stavamo facendo, consapevoli di aver aiutato tanta gente sofferente e di aver speso una parola di speranza per ognuno di loro. Giungevamo a Messina a tarda notte, sempre che il mare agitato non impedisse alle navi la traversata dello Stretto, in quel caso eravamo obbligati ad attendere per ore nella sala d’aspetto della stazione di Villa S. Giovanni. Durante queste lunghe attese, ricordavamo i casi clinici che ci avevano più colpiti durante la giornata, o cercavamo nuovi spunti, nuove idee di lavoro, per continuare le nostre ricerche sul siero.

Questo nostro peregrinare rinsaldò l’amicizia con il dott. Bonifacio, a tal punto che uno di noi lo scelse per battezzare la propria figliola. Questa parentela acquisita ci mostrò Bonifacio nel suo aspetto più bonario e paterno, ed era bello, nei pochi momenti di tranquillità, vederlo sorridere con la dolce infantolina tra le braccia e dire tra sé e sé: forse anche tu - piccolina - hai concorso ad allontanare dall’umanità il grosso flagello del cancro. Questa familiarità lo portò a mostrarci il suo piccolo laboratorio segreto, da molti ricercato, ma mai scoperto. Era gelosissimo di quanto in esso contenuto, frutto di anni di lavoro e di notevoli sacrifici! Ci fece vedere il suo armamentario e, con dovizia di particolari, si soffermò nella spiegazione del procedimento di estrazione e preparazione del suo siero. Meravigliati, conoscendo la sua tipica riservatezza e gelosia, ascoltavamo in religioso silenzio. Più tardi comprendemmo che tale apertura era anche finalizzata alla intenzione di renderci partecipi alla registrazione in Svizzera del metodo di preparazione del prodotto, infatti ci chiese copia firmata del lavoro scientifico da noi eseguito sugli animali da laboratorio.

Nel frattempo, era il 19 gennaio 1982, il Ministro della Sanità promosse l’istituzione di una nuova Commissione di studio per il preparato Bonifacio:

MINISTERO DELLA SANITA’

CENTRO STUDI

IL MINISTRO

Vista...............

DECRETA:

Art. 1 - Per la finalità di cui in premessa, è istituita presso il Centro Studi del Ministero della Sanità una Commissione di studio, con il compito di accertare le proprietà terapeutiche del c. d. siero Bonifacio nel trattamento dei tumori.

Art. 2 - La Commissione di cui al precedente art. 1 è così composta:

Prof. Enzo Bonmassar, ordinario di farmacologia, Università di Perugia, Presidente; Prof. Francesco Bresciani, ordinario di patologia generale, Università di Napoli, Componente; Prof. Francesco Dammaco, direttore patologia medica, Università di Bari, Componente; Dott. Mario De Lena, primario oncologia, Istituto di Bari, Componente; Prof. Silvio Garattini, direttore Istituto Mario Negri di Milano, Componente; Prof. Aldo Barduagni, primario divisione medicina ed ematologia, Istituto Regina Elena di Roma, Componente; Prof. Angelo Nicolin, direttore Laboratorio di Farmacologia Istituto Tumori di Genova, Componente; Dott. Gabriele Tancini, assistente Istituto Tumori di Milano, Componente;

Dott. Enzo Scozzarella, dirigente superiore medico, Ministero della Sanità, Componente. Le funzioni di segreteria sono affidate al dott. Rossano Ranchetti, collaboratore - coordinatore del ruolo speciale del Ministero della Sanità.

Art. 3 - La Commissione di cui al precedente art. 1 dovrà concludere i suoi lavori entro 12 mesi dalla data di insediamento. Gli Art. 4 e 5 parlano delle retribuzioni della Commissione e relativi gettoni di presenza, mentre la spesa relativa graverà sul capitolo 1112 del bilancio del Ministero della Sanità.

Finalmente anche il Ministero della Sanità smentiva i risultati della Commissione Bucalossi del 1970: questa volta sembrava tutto in ordine, ma attenzione: pochi oncologi e nessuno di quelli autorevoli, forse per non essere coinvolti come i loro predecessori? E poi, vi ricordate di Silvio Garattini, cosa aveva già affermato sul mensile Salve? E Barduagni, il quale pur non facendo parte della Commissione del ‘70, era stato l’esecutore materiale delle somministrazioni di siero al Regina Elena? Come fidarsi? A che gioco si giocava ancora una volta? Che tipo di indagini si sarebbero eseguite e dove? Eravamo certi, fra l’altro, che non ci sarebbe stata una terza Commissione, questo sarebbe stato il giudizio definitivo. Bisognava stare molto attenti e agire di conseguenza. Le nostre perplessità cominciarono subito a prendere corpo, infatti dopo un mese dalla istituzione della Commissione, i componenti si dibattevano nell’angoscioso problema sulla linea di ricerca da seguire. Dopo numerose riunioni, più o meno segrete, stabilirono che sarebbe stato opportuno sperimentare il prodotto direttamente sull’uomo, ricalcando l’iter del ‘70.

Ma, trascorsi pochi giorni, il presidente Prof. Bonmassar, in un’intervista rilasciata ai giornali, dichiarava che prima d’ogni altra prova doveva essere effettuato il cosiddetto sbarramento preclinico, ovvero andavano eseguite prima delle prove biologiche su animali. Da quanto sopra esposto, già si evincevano grosse incertezze tra gli stessi membri della Commissione, come se serpeggiasse una sorta di paura determinata dal timore, da una parte di bruciarsi agli occhi dei colleghi e di quella stessa scienza ufficiale che loro stavano rappresentando e dall’altra, la paura del giudizio dell’opinione pubblica.

I giorni ormai volavano via, erano trascorsi due mesi e, cosa gravissima, ancora non decidevano dove, quando e come eseguire la sperimentazione; non erano in grado di elaborare dei protocolli degni di tal nome, una linea di ricerca scientificamente valida. Vorremmo far notare che ciò, per ogni Componente la Commissione, doveva essere il pane quotidiano, quello che normalmente veniva effettuato negli Istituti da loro diretti. Perché in questo caso tanta difficoltà? Perché, a titolo conoscitivo, non convocavano Bonifacio e noi, e tutti quei ricercatori che negli ultimi anni si erano interessati al problema? Niente! Nessun parere venne chiesto, quasi temessero di infangarsi, o peggio di contagiarsi ascoltandoci. Povera Italia! Dante senza ombra di dubbio ne avrebbe fatto un sol fascio di questi illustri scienziati, scaraventandoli nel limbo, o forse tra gli inetti. Orbene, colmo dei colmi, alla fine riuscirono ad escogitare una soluzione a loro avviso ottimale: far eseguire i lavori presso l’Istituto Bethesda, nel Maryland (USA); così loro non si sarebbero sporcate le mani e nel contempo avrebbero tenuto fuori anche gli Istituti italiani diretti dai loro compari; sostenevano che solo così si sarebbe potuta avere obiettività di giudizio. Da ciò si evinceva che tale obiettività, in Italia, non si sarebbe avuta già in partenza; ma, cosa ancor più grave, che nella nostra Nazione non si trovasse un Istituto o un Laboratorio disposto e capace di effettuare delle prove così semplici, già riuscite a ricercatori isolati? Che fine avevano fatto tutti i nostri Megalaboratori attrezzati, con apparecchiatura da miliardi e di cui tanto si vantavano i rispettivi Direttori? E poi, che prove avrebbero eseguito in America? Sarebbe stato loro spiegato e da chi, di che cosa si trattava? No, una sperimentazione così fatta non era accettabile! Il tempo trascorreva inesorabile, si era giunti ai primi di Maggio dell’82: Bonifacio, amareggiato, deluso per tanta noncuranza da parte della medicina, minato nello spirito da 33 anni di inutili lotte, malato e stanco, in una concitatissima conferenza stampa, annunciava ufficialmente il suo ritiro.

Potete immaginare il caos che ne derivò! La gente si chiedeva incredula, com’era possibile che Bonifacio potesse abbandonarli al loro destino?

A nulla valsero le lettere, gli appelli, i telegrammi che lo sollecitavano a riprendere, a non gettare la spugna. In realtà noi sapevamo che non poteva, perché gravemente malato e nonostante cercassimo di calmare gli animi, molti cominciarono ad organizzare le prime manifestazioni ad Agropoli: fu occupata la stazione ferroviaria, con blocco dei binari, fu occupato il municipio, si effettuarono marce su Roma, cortei a Napoli, scioperi della fame. Ma nonostante questo, da parte delle autorità, assoluto silenzio, o peggio disinteresse. In questo frangente fummo sollecitati continuamente da migliaia di persone, che ci chiedevano di non abbandonarli e di continuare l’opera di Bonifacio. così il 4 Giugno 1982, ci presentammo al responsabile dei servizi di medicina sociale presso il Ministero della Sanità a Roma, dott. Proia che, dopo averci ascoltato, ritenne opportuno informare personalmente il Ministro Altissimo della situazione che si era venuta a creare. Avvenne l’impensabile. Il ministro convocò d’urgenza la commissione Bonmassar, che si sarebbe dovuta riunire con noi.

Alle 16,30 avvenne l’incontro, in una stanza al secondo piano dei locali ministeriali; attorno ad un lungo tavolo si sarebbero decise le sorti del siero Bonifacio.

Lo scontro cominciò e subito ci accorgemmo che a loro

interessavano ben poco le necessità dei malati; noi chiedevano che

fosse prodotto il siero con sollecitudine dagli Istituti zooprofilattici e distribuito, parte per iniziare le sperimentazioni e parte agli ammalati bisognosi.

Dopo tre ore di accesissime discussioni, volarono anche parole

grosse, Bonmassar e alcuni componenti cedettero alle nostre

richieste, mentre ostinatamente, quasi per puntiglio e con cattiveria,

resistevano Garattini e Barduagni. Pressato, stretto alle corde,

Garattini perse la calma ed affermò che era preferibile lasciar

soffrire e finanche morire la gente, anziché somministrare il siero

Bonifacio. Infine cedettero anch’essi, più perché sollecitati dagli altri componenti la Commissione, che per vera convinzione. Si era giunti alla produzione del siero di Stato.

Annunciammo alla stampa quanto era stato deciso. Eravamo soddisfatti del risultato raggiunto; infatti sapevamo che il Ministero della Sanità, attraverso gli Istituti zooprofilattici, poteva realmente produrre e distribuire il siero, garantendone la fornitura ai malati di cancro che ne avessero fatto richiesta, ed insieme, finalmente, si poteva cominciare una vera e seria sperimentazione. Troppo bello per essere vero. La medicina ufficiale, ancora una volta, colpì a tradimento; dopo sole 24 ore la commissione Bonmassar si rimangiò tutto, facendoci ripiombare nel buio più fitto, vanificando tutti i nostri sforzi.

Eravamo frastornati, avviliti, ci chiedevamo a cosa fossero serviti anni di duro lavoro, di sacrifici, di speranze. Era mai possibile seppellire, cancellare le nostre esperienze? A cosa era servito al vecchio Bonifacio rivelare la formula? A cosa era servita tutta una vita dedicata a lenire le sofferenze dell’umanità? Ci ritornava in mente, torturandoci, il messaggio, il testamento morale che Bonifacio ci aveva lasciato in eredità:

“Con affetto ed ammirazione per il lavoro scientifico che stanno svolgendo con competenza, entusiasmo ed obiettività. La battaglia è dura e difficile e le difficoltà non saranno soltanto di natura scientifica. Prometto, fin d’ora, che se si avrà la forza e il coraggio di non piegarsi, saranno consegnati alla storia della medicina, da protagonisti di una scoperta che non sarà soltanto mia.

Agropoli, 26/10/1980 LIBORIO BONIFACIO”

Inoltre, moralmente non ci sentivamo di abbandonare gli ammalati che, insistentemente, si rivolgevano a noi, molto spesso non solo per chiederci una cura che potesse guarirli, ma soprattutto per aiutarli a morire con dignità, senza atroci sofferenze, da esseri umani e non da larve quali li avevano ridotti la malattia e le terapie ufficiali praticate indiscriminatamente.

Infatti, all’XI Congresso mondiale di Oncologia, il più famoso, sia per presenze illustri che per numero di partecipanti (circa 9.000), dove dovevano essere tirate le somme di anni di ricerca, il suo segretario generale, Umberto Veronesi, affermò che era necessario rimboccarsi le maniche e ripartire, con estrema umiltà, da basi nuove. Si erano così amalgamati vari fattori, quali il messaggio di Bonifacio, le sofferenze dei pazienti, l’impotenza delle terapie ufficiali ed in ultimo la nostra convinzione che la scoperta dell’anticancro sarebbe venuta dall’intuizione di un singolo, anziché dal lavoro di équipe; tutto ciò ci spinse a continuare.

Cercammo di integrare i nostri studi, documentandoci sulle abitudini di vita della capra selvatica e grande fu la meraviglia quando apprendemmo che essa era stata usata per millenni nella cura dei tumori. L’idea di curare il cancro con un estratto del contenuto gastrointestinale caprino, nacque in Persia, e da qui passò agli Arabi e poi in Europa, ed intorno all’anno mille giunse anche in Italia. Gli antichi persiani chiamavano padzahr una concrezione che si formava nello stomaco dei caprini, usata come anticancro, gli arabi la chiamarono bazar o badizhar ed in ultimo gli europei beozar o benzoar o belzoar.

Le esperienze raccolte, gli studi fatti sulle più disparate terapie con prodotti biologici, ci permisero di mettere in pratica quanto da tempo avevamo sperimentato sui nostri animali da laboratorio. Con un metodo originale di preparazione, ottenemmo un prodotto che si dimostrò molto più immunoattivo, lo affinammo ulteriormente, lo standardizzammo, saggiandone la tossicità, la pirogenicità e la sterilità.

Rivolgemmo ancora le nostre ricerche in varie direzioni, approfondendo la conoscenza del farmaco da un punto di vista chimico, biochimico e microbiologico, isolando i singoli componenti e valutandone sperimentalmente la loro immunogenicità. I singoli aminoacidi trovati, le lipo e le glicoproteine, furono saggiati singolarmente e per gruppi sugli animali, ottenendo risultati terapeutici incoraggianti. Il prodotto, iniettato per via intramuscolare, era assorbito meglio e più velocemente, i tempi morti tra l’inoculazione e l’azione terapeutica erano dimezzati. Riuscivamo meglio a seguire i pazienti richiedendo tests immunologici specifici, che ci consentivano di controllare i parametri immunitari, sia umorali che cellulari. Riuscimmo ad ottenere un movimento rigogliosissimo di macrofagi, di linfociti T e B, di granulociti neutrofili; ove possibile, oltre alla terapia generale, applicammo anche quella locale, con netti ridimensionamenti di grosse masse neoplastiche. Riuscimmo a monitorizzare, con il lavoro univoco di medici curanti e di specialisti, 80 casi di neoplasie polmonari in stadio avanzato e di presentarne i miglioramenti ottenuti con la somministrazione del prodotto biologico da noi usato, ad un convegno medico tenuto a Roma, sul tema: Terapie biologiche nella cura del Cancro. Fu un vero successo; avevamo dimostrato risultati inequivocabili, l’efficacia della nostra terapia, là dove le terapie ufficiali non avevano potuto più nulla. La nostra casistica, ormai si avvaleva di migliaia di casi, è ovvio che non in tutti riuscivamo ad ottenere grossi risultati, anche perché la stragrande maggioranza (95%) dei pazienti che si rivolgevano a noi era ormai in fase terminale; ma, nonostante tutto, potevamo affermare che, anche ove non ottenevamo grossi risultati sulla neoplasia e le sue metastasi, sicuramente vedevamo dei miglioramenti delle condizioni generali, con diminuzioni nette della sintomatologia dolorosa ed un ritorno ad una vita più umana. In questa nostra assurda esperienza, abbiamo incontrato ostacoli enormi, ma abbiamo anche ricevuto attestazioni di solidarietà umana. Vogliamo citare un uomo per la sua carità e per il suo coraggio; fu l’unico che ci aprì le braccia e il cuore, ospitandoci nei locali della sua parrocchia: Don Vincenzo Paglia, il quale ricevendoci ci disse “Io non so se questo prodotto cura il cancro, so soltanto che dinanzi a Dio ed a me stesso, come uomo e come sacerdote, devo accogliere questi poveretti ed aiutarli, con tutto quello che mi è concesso di fare”. Continuando, “la Chiesa non può sottrarsi ai suoi doveri ed attuare un’opera di cristiana carità, così come fece Cristo 2.000 anni fa. In un mondo disumano, dove la violenza assurge a simbolo di vita, è sacrosanto che la Chiesa manifesti la propria solidarietà a chi soffre”.

Esaminando la casistica finora raccolta, possiamo affermare che:

1) In tutti i casi trattati con IMB (Immuno Modulante Biologico) si è sempre, indiscutibilmente, constatato un miglioramento della sintomatologia soggettiva ed obiettiva, consistente in: ripresa dell’appetito, aumento ponderale, normalizzazione del sensorio, diminuzione e/o scomparsa del dolore, scomparsa dello stato tossico, scomparsa dell’ittero, chiusura di fistole neoplastiche, diminuzione e/o scomparsa delle emorragie, normalizzazione dell’emocromo, diminuzione del CEA e dell’alfafetoproteina e di altri parametri ematochimici.

2) Tumori del polmone: la risposta alla terapia con IMB è in generale ottima, pur risultando condizionata dall’istotipo della neoplasia; infatti rispondono meglio il carcinoma spinocellulare e l’adenocarcinoma. Nel 90% dei casi si è osservata la scomparsa del dolore, nel 70% dei casi la diminuzione della dispnea, della tosse, l’aumento della capacità respiratoria, la normalizzazione della crasi ematica, nel 40% dei casi la normalizzazione del CEA. I casi trattati in precedenza con radiazioni e/o con chemioterapia antiblastica sono stati l’85%; nel 3% si è osservata, con controlli radiologici fatti costantemente, la stasi della massa neoplastica o la sua riduzione, e delle metastasi locoregionali e/o a distanza. Il rimanente numero dei casi presentava una ripresa, anche se più lenta, della malattia, dopo un iniziale periodo di miglioramento.

3) Tumori del sistema nervoso: anche in questo tipo di neoplasia, la risposta è stata, in generale, ottima. La stabilizzazione della massa neoplastica, repertata con TAC, è stata osservata in grosse percentuali. In tutti gli altri casi si sono comunque constatati gli effetti generali positivi riferiti al punto 1.

4) Tumori dell’apparato digerente e delle vie biliari: in particolare hanno risposto positivamente alla terapia con IMB i tumori dello stomaco e del sigma-retto. Alcuni casi, ritenuti inoperabili e con metastasi peritoneali, sono stati riportati all’operabilità. 5) Tumori dell’utero, ovaio e mammella: i risultati ottenuti su queste neoplasie sono molto confortanti, sia come azione antineoplastica sulle masse primarie, ma anche sulle metastasi ossee. Anche in questi casi, molti sono stati riportati alla operabilità, i controlli scintigrafici dimostravano un contenimento od anche una riduzione dei focolai metastatici.

6) Tumori del pancreas: la risposta è ottimale, sia per il ridimensionamento della massa neoplastica pancreatica, sia sui fenomeni compressivi estrinsecatisi a livello duodenale e delle vie biliari.

Concludendo, i risultati da noi ottenuti sono da ritenersi eccezionali, se si considera che gli ammalati che utilizzano l’IMB sono stati già sottoposti alle terapie ufficiali altamente debilitanti, e che quindi si rivolgono a noi in condizioni di profonda degradazione o terminali. Molto spesso il paziente riprende una vita normale, a tal punto da poter riprendere la propria attività lavorativa, riallacciando, nell’ambito della famiglia, quegli affetti trascurati per la malattia. Riportiamo qui di seguito una tabella, riguardante solo i casi a noi presentatisi con una documentazione clinica completa, trattati con IMB e da noi seguiti con esami specifici, allo scopo di studiare l’evoluzione della malattia e nei quali si è riscontrata efficacia terapeutica.

I criteri di valutazione dell’efficacia terapeutica da noi seguiti sono stati:

1) diminuzione della massa tumorale;

2) diminuzione o scomparsa di versamenti liquidi neoplastici;

3) prolungamento dell’arco di sopravvivenza;

4) miglioramento della sintomatologia soggettiva e/o obiettiva.

Neoplasia N. casi Efficacia %

cervello 94 78,7

polmone 607 62

stomaco 251 61,5

colon 467 76,1

mammella 353 72,6

pancreas 197 72,7

utero 49 62,5

melanoma 145 77,7

rene - uretere 71 61

prostata 151 73

vescica 97 72,7

fegato 167 69

esofago 36 51

tiroide 27 98

diversi 41 70

Riassunto della comunicazione Trattamento di neoplasie maligne polmonari con IMB in una popolazione non selezionata, presentata ad un convegno medico sulle terapie biologiche.

La terapia con IMB (Immuno Modulante Biologico), somministrata per via intramuscolare per 12 mesi a 80 pazienti portatori di neoplasia polmonare maligna, e tutti con metastasi locoregionali e a distanza, in fase preterminale e con sintomatologia dolorosa, a stento controllata con oppiacei, si è dimostrata estremamente positiva, con una sopravvivenza globale a 6 mesi del 55% e a 12 mesi del 32%, pari a 26 pazienti su un totale di 80.

Vi è inoltre da considerare che, allo stato attuale, questo 32% vive in condizioni respiratorie discrete, con un tipo di vita più che accettabile.

La nostra indagine ha anche messo in evidenza che la risposta immunologica con l’IMB è condizionata da fattori estremamente importanti quali: l’età (la migliore risposta si ha nei pazienti tra i 35-44 anni), l’istotipo (il carcinoma spinocellulare - SQC - e l’adenocarcinoma - ACA - rispondono meglio alla terapia), le terapie precedentemente praticate (decisamente migliori sono le risposte di quei pazienti non trattati o che si siano sottoposti solo a trattamento RT, nella sopravvivenza sia a sei mesi che a dodici mesi). Anche la sintomatologia, sia locale, che regionale, che a distanza, ne trae ottimi benefici, in special modo nella classe compresa tra i 35-44 anni, con risultati valutabili dell’85% sui sintomi locali, del 75% sui sintomi regionali e del 50% su quelli a distanza.
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25/02/2009 14:06
 
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Davvero Interessante. Non ne avevo sentito parlare di questo siero.
L'unica certezza è che, come si capisce dall'articolo, la medicina ufficiale non ha lo scopo di curare, questo è certo.
Di cure alternative ce ne sono tante, spesso funzionano bene, e spesso sono frutto della passione e della dedizione di un singolo individuo che non si arrende davanti alle apparenti evidenze o alle conclusioni affrettate.
La nostra strada è questa e non ci arrendiamo.
Grazie per l'articolo
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05/03/2009 23:05
 
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In questa intervista Silvia racconta come nell’ottobre del 2007 le abbiano diagnosticato una displasia di III grado al collo dell’utero, seguita da relativo intervento di conizzazione (dicembre 2007). L’esame istologico ha confermato la presenza di un carcinoma microinvasivo, e le è stata consigliata al più presto l’asportazione dell’utero, prima che il tumore potesse andare in circolo e raggiungere altri organi. “Se non lo rimuoverai – le fu detto - fra tre mesi sarai invasa dal tumore”.

Dopo un tormentato percorso di ricerca, e contro un muro compatto di medici, amici e parenti che le consigliavano l’asportazione, Silvia ha scelto invece la terapia di Simoncini.



Dopo sette settimane di terapia (lavaggi interni con soluzione di bicarbonato), Silvia ha fatto un controllo con esame citologico, che ha confermato la completa assenza di cellule cancerose.

In seguito Silvia ha eseguito altri controlli, …

… risultati finora tutti negativi.

Massimo Mazzucco

L’intervista è di Fefochip

www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?stor...
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